La scena che educa #chance

Carichiamo qui il video integrale e gli atti del convegno “La scena che educa #chance“, nato dall’osservazione delle caratteristiche della scuola e dal riconoscimento delle possibilità che il teatro le può offrire: in ogni istituto italiano, di qualsiasi ordine e grado, ci sono studenti con una disabilità certificata o una fragilità negli apprendimenti o nella loro situazione socio-economico-culturale, perciò occorre chiedersi di quali professionalità e tecniche c’è bisogno per affrontare il teatro fatto per e con i più fragili.

Durante il convegno sono intervenuti artisti, docenti, insegnanti, operatori teatrali ed educatori che ogni giorno si interrogano sul senso del proprio agire dentro e fuori la scuola:

  • Maria Federica Maestri (Lenz Fondazione, Parma)
  • Angela Pesce (docente di sostegno alla scuola secondaria di primo grado Guido Guinizelli – IC8, Bologna)
  • Sandra Negri (formatrice e coordinatrice del progetto Calamaio – Cooperativa Accaparlante, Bologna)
  • Massimiliano Briarava (professore all’ITCS Gaetano Salvemini, Casalecchio di Reno)
  • Gaia Germanà (danzatrice ed educatrice Muvet, Bologna)
  • Caterina Bartoletti (Teatro dell’Argine, Bologna)
  • Diana Anselmo (artista e attivista, presidente di Al.Di.Qua Artists)

Le conclusioni del convegno sono state curate da Dalila D’Amico, autrice di Lost in Translation. La disabilità in scena e componente dell’associazione Al.Di.Qua Artists – Alternative Disability Quality Artists.

L’incontro è stato interpretato in LIS da Sara Pranovi e Luca Falbo ed era rivolto a docenti di ogni ordine e grado, educatori, operatori teatrali e compagnie.

L’evento era parte de “La scena che educa”, progetto finanziato da Fondazione Carisbo e Chiesa Valdese.

Trascrizione degli interventi

Agnese Doria (Altre Velocità)
«Do il benvenuto a questo incontro dedicato alle pratiche teatrali nei contesti scolastici come possibile forma di inclusione delle disabilità. Altre Velocità lo ha organizzato a dicembre poiché è il mese in cui si tiene la Giornata internazionale delle persone con disabilità, ma il nostro desiderio è continuare a interrogarci e a interrogare la scena teatrale su questi temi al di là delle ricorrenze.
L’incontro di oggi nasce nell’ambito del progetto “La scena che educa” che Altre Velocità ha immaginato insieme all’IC8 di Bologna, ed è rivolto ai docenti di sostegno e agli operatori teatrali che fanno fare teatro a scuola. A loro intendiamo rivolgere alcune domande: in che modo fare teatro nei contesti scolastici può essere il motore di una rivoluzione culturale e sensibile? In che modo fare teatro può educare la comunità scolastica? Di che professionalità c’è bisogno per fare teatro per e con i più fragili? Di quali tecniche l’operatore teatrale necessita per affrontare un percorso che ha a che fare con la vita delle persone, con il loro cuore e con i loro affetti? Esiste un corretto bagaglio di competenze umane e relazionali per affrontare le varie peculiarità che si presentano a scuola?
Questi sono solo alcuni degli interrogativi che chi opera nel teatro e nella scuola si pone ogni giorno rispetto al senso del proprio agire. Se pensiamo che la società debba o possa cambiare, diventando più sensibile oltre che più accogliente, la scuola è a mio avviso uno dei luoghi preposti a questo cambiamento, poiché può immaginare e rilanciare, e questa è una responsabilità luminosissima e potente. E il teatro può offrire una sponda e un aiuto alla scuola per abbattere le barriere mentali e culturali nonché per percepire i problemi con più pienezza e profondità – d’altronde queste sono proprio alcune delle sue funzioni.
Il primo intervento sarà di Maria Federica Maestri di Lenz Teatro, la cui ricerca artistica è una testimonianza di come le performing arts possano unirsi a diverse sensibilità creando una cifra stilistica estremamente riconoscibile eppure mobile e vibrante. Una delle caratteristiche di Lenz Teatro è quella di avere intercettato la grande drammaturgia di Büchner, Grimm, Shakespeare, Andersen, Ovidio, Lorca e molti altri e di averla messa in relazione alle inquietudini dell’essere umano contemporaneo, avendo però sempre chiara l’importanza di fare arte ad altissimi livelli con quelli che la compagnia definisce “attori sensibili”. Partirei quindi dal chiedere a Maria Federica Maestri di raccontarci da dove ha origine il desiderio di lavorare con gli “attori sensibili” e da dove nasce questa definizione così precisa».

Maria Federica Maestri (Lenz Teatro, Parma)
«Lenz Teatro è nato nel 1986 e ha iniziato la sua attività con gli “attori sensibili” nel 1999: si tratta di un tempo molto lungo, e questa condizione del tempo secondo me sta a fondamento di tutto ciò che si può dire e fare con gli “attori sensibili”. Avere tempo è una precondizione, una premessa, un atteggiamento etico e filosofico per non comprimere, bensì per inventare e avvicinarci a quello che poeticamente definisco un “tempo sottomarino” in cui si può sentire, sapere e capire che ci si trova in un altro mondo in cui si respira diversamente, in cui ci si muove diversamente e in cui le dorsali performative sono più morbide, più lente e si arricchiscono in questa condizione di lavoro dotata di altri codici spazio-temporali.
Il percorso con gli “attori sensibili” in Lenz è iniziato senza che ci fossero delle premesse o delle precondizioni biografiche. Non avevo nessun tipo di prossimità alla formazione né ho fatto studi di sociologia o psicologia; eppure questo incontro è avvenuto e ha cambiato per sempre la nostra vita artistica come un imprevisto, un inciampo che è stata al contempo la fortuna e la dannazione della mia esistenza artistica, perché non ti permette più di tornare indietro, ma solo di andare avanti. Il merito è stato di Lucia Perego, amica psicologa e grandissima maestra di danza, che mi ha semplicemente invitato ad assistere a una sua lezione con un gruppo di giovani di allora, tra cui alcuni ragazzi con sindrome di Down e altre sensibilità. Mi sono recata alla lezione con totale ingenuità e incoscienza di ciò che avrei visto ed è avvenuta un’epifania, una rivelazione dovuta anche al fatto che come compagnia avevamo trascorso gli anni precedenti a lavorare su Lenz, che muore pazzo sulle vie di Mosca, e su Hölderlin, che divenuto folle, passa la seconda metà della sua vita a scrivere ossessivamente poesie rinchiuso in una torre. Venivamo insomma da un mondo poetico che conteneva in sé, come in un futuro circolare, le ragioni dell’incontro, e da questa folgorazione è partito un percorso che riassumerei in tre tappe.

  • Dal 1999 al 2009 c’è stato il “periodo eroico”, durante il quale abbiamo cercato di costruire una lingua nuova a partire da una grammatica, ovvero avendo la consapevolezza che dovessimo attivare dei diversi strumenti fisici, verbali e creativi. Sono stati dieci anni di laboratori intensissimi con oltre 250 allievi in laboratori organizzati da scuole, cooperative, gruppi e associazioni; una chiamata politica, poetica e linguistica in cui ci siamo definiti e ridefiniti. Lenz aveva già tredici anni di vita, quindi eravamo già grandi, ma abbiamo comunque dovuto imparare una nuova lingua. In questo lungo periodo mi sono fatta nutrire da persone con sensibilità molto differenti, con ambienti, età e condizioni molto diverse: una miriade di persone che ha costituito una polifonia e una polisemia, e che ha implicato un processo di grande sforzo.
  • Dal 2010 al 2014 è avvenuta la “formazione di un ensemble”, con la conversione totale della polifomia e della polisemia nelle grandi drammaturgie e con l’invenzione dell’attore-trasduttore, che cioè potenzia il materiale classico attraverso la sua biografia e sensibilità. Costruivamo sintassi che avevano come protagonisti gli attori sensibili, con lavori come quattro stesure dell’Amleto o un progetto su Manzoni.
  • Dal 2015 a oggi sta avvenendo la “creazione dei mondi” che non c’erano, come l’immersione nella fantasmagoria dell’Orlando furioso e lavori site specific in cui ci si immerge in spazi straordinari come ospedali abbandonati o musei di arte contemporanea, in cui esplodiamo e ricreiamo mondi attraverso i grandi libri occidentali.

Oggi, dopo 23 anni di lavoro, la grande domanda che ci stiamo ponendo è dove stiamo andando e con chi lo stiamo facendo. Si tratta insomma della questione di affrontare il futuro, quindi di essere condannati a nuove turbolenze e disorientamenti, che è una condizione benefica soprattutto quando si è molto adulti. Stiamo cercando di capire qual è la nostra identità ignota, che si sta definendo e che si definirà col prossimo lavoro triennale sulle sacre scritture.
Grazie alla comunità che si è formata in questi anni intorno a Lenz, ho capito che la scuola ha come ruolo fondamentale quello di creare integrazione. Noi artisti siamo esiti di ruoli, perciò per noi è più difficile, mentre la scuola è l’istituto che può definire in maniera rivoluzionaria una comunità fatta di discordanza e di rarità. Lavorare per omogeneità, classificazioni e specie non va bene; bisogna mettere a rischio l’equilibrio e quindi essere pronti a cadere, a perdere tempo e certezze, e a non respirare se vogliamo stare sott’acqua, se vogliamo abitare come una grande medusa nelle profondità. Si deve pensare al groviglio non per liberarlo, bensì per illuminarlo. E agli “attori sensibili” bisogna dare un copione che si devono cucire addosso, senza spremere il sentimentalismo delle loro biografie e delle loro sofferenze e senza denudarli, perché la nudità è già la loro condizione. Piuttosto, occorre lasciare che la loro parola e il loro gesto siano liberi e si ramifichino nel loro corpo psichico».

Agnese Doria (Altre Velocità)
«Il secondo intervento sarà quello della prof. Angela Pesce, a cui va il merito di averci dato circa due anni fa, insieme alla prof. Giovanna Renzi, le suggestioni per organizzare questo incontro. Angela, da docente di sostegno cosa vedi nel teatro? Cosa ti ha spinto a pensare che il teatro potesse marcare una via importante nella scuola e per la scuola? Vorrei inoltre che raccontassi qual è il dialogo possibile con l’operatore teatrale e come dovrebbe essere l’osservazione del gruppo classe in relazione al ragazzo/ragazza disabile. Per finire, ti chiedo quanto una scena che porta alla ribalta la disabilità può amplificare delle questioni che sono presenti nella realtà ed essere quindi anche uno strumento di riflessione per la realtà stessa».

Angela Pesce (docente di sostegno alla scuola secondaria di primo grado Guido Guinizelli – IC8, Bologna)
«Per rispondere vorrei partire riprendendo alcune parole chiave pronunciate nell’intervento precedente. La prima di queste è “tempo”. Quando ho iniziato la mia esperienza di portare il teatro a scuola, mi sono data come primo obiettivo quello di prendermi del tempo per guardare e osservare i ragazzi; quel tempo che spesso alla scuola media manca e che invece è stato prezioso per tutto ciò che in seguito siamo riusciti a costruire e a proporre.
Altre due parole chiave che ho sentito sono “ambiente sottomarino” e “lingua”. Quando mi sono trovata per la prima volta a lavorare alle scuole Guinizelli con alcuni ragazzi con disabilità molto gravi, mi sono chiesta come poter creare ciò che Agnese ha definito non “integrazione” bensì “intreccio”, in un contesto fatto soprattutto di studio e di tempi serrati, dove non c’è lo spazio ludico che invece nella scuola dell’infanzia e alle elementari è fondamentale come spazio di incontro. Per rispondermi ho richiamato la mia formazione in lettere e mi è venuto in mente che i libri possono essere quell’occasione di incontro adatta per sostituirsi allo spazio del gioco che nella scuola secondaria non c’è più. Tuttavia i libri hanno un altro limite, quello della lingua che può diventare una barriera; allora per abbatterla ho scelto i libri senza parole che, proprio come il teatro, possono superare i limiti linguistici e allo stesso tempo creare un’altra lingua fatta di immagini, colori, rumori, corpi. Uno dei primissimi silent book che ho proposto e con cui ho lavorato si intitola La piscina e rappresenta proprio un ambiente sottomarino: in una piscina affollata di ragazze e ragazzi, tutti stanno a galla con canotti e salvagenti tranne un bambino e una bambina che si tuffano sott’acqua, dove scoprono un mondo fantastico che i loro coetanei a galla non possono vedere. Nell’ambiente sottomarino, questi due bambini si sono incontrati e hanno costruito una nuova lingua e creato quell’intreccio, e questo libro per me racconta proprio ciò che dovrebbe avvenire a scuola, e che il teatro ci dà l’occasione di costruire.
Purtroppo sempre più i corsi di formazione per insegnanti vorrebbero fornire delle soluzioni semplici ai problemi complessi che noi docenti incontriamo ogni giorno, ma invece la scuola dovrebbe accettare la complessità e mettersi in gioco, ed è qui che arriva il teatro, chiamandoci in causa e portandoci ad affrontare la complessità. Non esistono soluzioni semplici né formule adatte a tutti, non ci sono regole per lavorare con “i ragazzi con sindrome di Down” o con “i bambini autistici”, perché ogni alunno con disabilità ha un nome e un’identità e perciò bisogna prendersi quel tempo per guardarli, ascoltarli e conoscerli.
In un altro libro che sto leggendo a scuola, dal titolo Il robot selvatico, una robot femmina nasce in una foresta in mezzo agli animali, ovvero in un luogo per lei molto inospitale; eppure per lei questo è l’unico ambiente in cui si sente a casa. A un certo punto la robot incontra un opossum che finge di essere morto per non essere attaccato da un tasso; il robot osserva la scena e poi chiede all’opossum perché avesse recitato, e l’opossum risponde: “Perché mi diverte”. Solo dopo dirà che per lui recitare è anche una strategia di sopravvivenza e consiglierà alla robot di utilizzarla per riuscire a sopravvivere nella foresta inospitale. Ma innanzitutto, recitare lo diverte. Ecco, il teatro è lo spazio in cui secondo me a scuola si può recuperare questo divertimento prima di adottare la propria strategia della sopravvivenza. Quasi tutti i ragazzi alla scuola media iniziano recitando un ruolo, forse perché hanno paura o perché non si riconoscono più nei loro corpi che stanno cambiando, e queste sono tutte strategie di sopravvivenza per provare a stare a galla. Poi ci sono alcuni ragazzi che non recitano nessun ruolo e non mettono in campo nessuna strategia di sopravvivenza, ma che portano solo se stessi: questi ragazzi sensibili, che affrontano la piscina senza galleggianti, li possiamo incontrare nel teatro, dove tutti sono chiamati a recitare ma non come strategia di sopravvivenza, bensì a fare finta divertendosi. Quando facciamo teatro a scuola con alunni con disabilità riusciamo a ritrovare quello spazio di gioco e di divertimento che questi ragazzi nella crescita stanno perdendo. Quando recitano i ragazzi si “immaginano diversi” e il teatro può fornire degli “attrezzi” ai ragazzi per tornare a giocare in un gioco che si fa grande di parola in parola, come dice una poesia di Piumini».

Agnese Doria (Altre Velocità)
«Proseguiamo ora con Caterina Bartoletti del Teatro dell’Argine, prezioso partner del progetto “La scena che educa”, occupandosi di condurre i laboratori teatrali nelle scuole elementari e medie dell’IC8. A Caterina chiedo come si può, secondo lei, mettere un faro sulla peculiarità dei ragazzi disabili per fare luce sulla loro condizione particolare senza che tale condizione schiacci unicamente l’individuo su quello, a partire dal lavoro teatrale».

Caterina Bartoletti (Teatro dell’Argine, Bologna)
«Oltre a essere attrice di prosa sono stata artista di teatro-circo, perciò il corpo per me è molto importante ed è uno dei pilastri del mio insegnamento, in particolare coi ragazzi delle scuole elementari e medie. Sono entrata nel Teatro dell’Argine come attrice e sono diventata insegnante, e sono contenta di questo percorso, perché la mia esperienza da attrice si è completata solo nel momento in cui ho iniziato a insegnare. Amo guardare, scoprire, curiosare e sbirciare l’effetto che il teatro ha sugli altri, perché il teatro è effettivamente per tutte e per tutti, e questa è la cosa più importante. Per giocare col teatro non c’è un’età, un genere, una forma, un’altezza o un carattere più adatti di altri, ma nella mia esperienza di insegnante mi sono resa conto che ci sono delle età che ne hanno particolarmente bisogno – se di bisogno si può parlare, perché il teatro secondo me non è una necessità bensì un consiglio, una saggia e stramba scoperta sia per noi che lo facciamo che per coloro ai quali lo insegniamo.
Nei miei laboratori di teatro a scuola non ho una tecnica teatrale ma ho un bagaglio alle spalle, ovvero una scuola di teatro e dei maestri che mi hanno insegnato a recitare, e tutto ciò è diventato il mio insegnamento. Non arrivo mai nelle classi con un copione, non sono io il copione né glielo appiccico addosso, non so delle parti ai ragazzi bensì li accompagno verso la realizzazione del percorso e poi anche allo spettacolo finale, che non ritengo sia l’aspetto più importante di questi progetti. Non puntiamo al “saggio” o allo show di fine corso – anche se ci arriviamo perché è giusto dare anche questa soddisfazione ai ragazzi – e anzi, per alcune classi non è nemmeno il caso di farlo e non avere questa spada di Damocle a causa del covid è stato molto utile. Con la pandemia, poi, ho trovato dei ragazzi che non solo non avevano più una bocca a causa della mascherina, ma soprattutto avevano gli occhi spenti. Non avevano più voglia di giocare, quindi l’idea di non portarli in scena è stata rilassante sia per loro che per me.
I ragazzi delle scuole medie sono tutti fragili e sono tutti degli eroi: hanno sempre qualche problema di gestione di sé, di ciò che sta succedendo al loro corpo e alla loro mente; figuriamoci poi in questo periodo storico. Perciò ogni volta che entro in classe la prima cosa che dico è che a teatro non si sbaglia mai, non ci sono errori e non ci sono voti; l’unica cosa sbagliata è non provarci. Questa è la regola da cui parto sempre per fare i laboratori. Per i ragazzi io sono quella che fa fare loro cose strane, che li fa divertire, che ha dei rituali, che li chiama per nome, che suda con loro e sente il loro sudore, che parla e li ascolta tantissimo, e quando parliamo e li ascolto nascono gli spettacoli.
Dicevo che non arrivo mai con un copione, però lancio sempre delle sfide e degli input, e questi diventano la loro voce e il loro pensiero. Siamo riusciti a lavorare su qualsiasi cosa – il coraggio, il movimento, la migrazione, la cucina – e abbiamo parlato di quello che loro vedono con i loro occhi da preadolescenti e di come secondo loro gli adulti vedono il mondo; e la cosa incredibile è che spesso questi ragazzi, seppure sembrino sempre assenti, in realtà vedono e sentono tutto con una sensibilità incredibile. Quando iniziamo a giocare i protagonisti sono loro; ormai le professoresse mi conoscono e sanno che non hanno bisogno di dirmi nulla, perché non voglio sapere con chi ho a che fare. Facendo i laboratori in orari scolastici, poi, ci sono importanti differenze rispetto alle esperienze extracurricolari: i ragazzi infatti non scelgono di fare teatro ed è per questo che nascono i momenti migliori, come la ragazza sempre silenziosa che invece parla a lungo durante l’improvvisazione, o il ragazzo dislessico che scrive una tesina sugli attori dislessici, o ancora i disabili che trovano nel teatro un modo per esprimersi in maniera diversa perché possono usare moltissimi linguaggi. Insomma, tutti i ragazzi con le loro fragilità trovano nel teatro un nuovo tipo di linguaggio e trovano il modo di farsi accettare nel gruppo. Per questo è importante non creare le “classi ghetto”, bensì mettere tutti insieme – disabili normodotati non udenti eccetera – per far sentire tutti gruppo insieme agli altri. Il teatro si fa con le diversità, e non quando tutti sono uguali».

Agnese Doria (Altre Velocità)
«Introduco ora Massimiliano Briarava, professore all’ITCS Salvemini a Casalecchio di Reno, che dal 2005 immagina ottime pratiche intorno al teatro, organizzando laboratori di recitazione, scrittura drammaturgica, regia e danza in orario extracurricolare. Il Salvemini è l’esempio di una scuola aperta, in cui ogni pomeriggio dell’anno si trova qualcosa che ha a che fare col teatro, e Massimiliano con “Adolescena” è riuscito a mettere in campo un progetto molto ampio di integrazione tra ragazze e ragazzi disabili e non».

Massimiliano Briarava (professore ITCS Gaetano Salvemini, Casalecchio di Reno)
«Vorrei partire da una citazione che da sempre incornicia il mio fare teatro: “Non so né parlare né scrivere. Sono fermo nella parola e inibito nel pensiero. È il contrario della disinvoltura, della padronanza, è il contrario di un dono. […] Se è dotato, se l’artista è dotato, è dotato di una mancanza. Se ha avuto qualcosa, è qualcosa in meno.” (Valère Novarina, All’attore).
Queste frasi sono un’illuminazione che mi ha sempre accompagnato in tutte le esperienze di teatro-laboratorio in cui mi sono trovato, dal carcere ai centri di recupero per tossicodipendenti fino ad arrivare alla scuola. In tutte queste situazioni liminali ho lavorato con persone che portavano con sé anche l’attributo del “detenuto”, del “tossico”, del “disabile” o dell'”adolescente”, e ho trovato per il teatro non uno spazio accessorio bensì uno spazio elettivo, esatto, risolutivo per i miei interlocutori; e nel caso specifico della scuola, uno spazio necessario sia per il teatro che per la scuola stessa.
La scuola è un’istituzione, ma più di ogni altra istituzione, è fatta di persone. Se “istituzione” è un termine freddo che rimanda alla solidità e alla stabilità, “persona” è un termine caldo che rimanda alla fragilità e alla mobilità; dunque la scuola deve essere un’istituzione eccezionale, in cui dare massima importanza al contempo alle regole e alle eccezioni, mettendo dunque in discussione ogni giorno la freddezza e la stabilità. Questa natura ibrida e anfibia della scuola-istituzione è una qualità preziosissima per gli studenti, perché la scuola è uno spazio concreto di apertura, ascolto, accompagnamento e ritmo stabile e condiviso in gruppo; mentre una volta fuori, nel contemporaneo ipercinetico, ai giovani tocca ricostruirsi questo spazio di ascolto, apertura e ritmo dentro di sé o intorno a sé in un piccolo contesto, poiché difficilmente lo possono trovare altrove. Allora, dal momento che questa capacità di costruire e conservare mondi interiori stabili non passa spesso in classe negli orari curricolari, può essere allenata attraverso il lavoro teatrale fatto a scuola.
L’importanza degli anni di scuola vale per tutti, ma in modo particolare vale per gli adolescenti con disabilità. Sui temi dell’inclusività la legislazione italiana è molto avanti e i giovani con disabilità possono vivere assieme ai loro coetanei la fase più delicata della vita, quella della scoperta del sé, che non è facile per nessuno e tantomeno per i ragazzi disabili, che quasi mai si pongono in maniera passiva o arrendevole rispetto alla propria condizione e al modo in cui essa viene percepita all’esterno. I giovani sono combattenti consapevoli di se stessi, e l’equipaggiamento mentale con cui la loro personalità agisce sulla realtà, ovvero la loro autostima, non si sviluppa sulle “hard skills” – cioè quelle che portano a un voto – bensì sulle “soft skills”, che sono quelle attitudini personali che una scuola ti può concedere di esercitare, quelle emozioni che una scuola ti può aiutare a leggere, imparare, esprimere e condividere. Perciò una scuola inclusiva e reale nel mondo deve includere nella propria offerta formativa quelle discipline che con Artaud definirei “atletico-affettive”, che cioè coniughino corpo e mente, che sintetizzino non solo la quantità bensì la qualità del sapere, e la capacità non solo di riprodurre il sapere ma di produrlo, di essere “belli in quanto buoni”, in greco kalòs kai agathòs, un motto che sintetizza la natura umana nella sua forma più alta, quella di una bellezza che nasce dal coraggio di essere eroi.
L’istituto tecnico Salvemini si confronta ogni giorno con la propria umanità, anche perché ha nella sua biografia la strage del 6 dicembre 1990 che costò la vita a dodici studenti e cambiò per sempre la percezione del vivere una comunità come la scuola, dando come reazione al dolore un surplus di forza vitale che permane ancora oggi e che aiuta quello che è il più grande istituto tecnico della provincia di Bologna nella sua vocazione all’inclusione, tradotta attualmente in oltre 80 studenti certificati BES e in attività di laboratorio teatrale che fanno parte dell’organico scolastico. Da sette anni, il laboratorio teatrale che coordino al Salvemini è un grande investimento di risorse interne ed esterne, di tempi e spazi, in quando prevede svariate attività (recitazione, scrittura drammaturgica, videomaking, danza, canto, marketing dello spettacolo), collaborazioni con importanti artisti e persino partecipazione degli spettacolo a concorsi e tournée, riconoscendo così alle attività teatrali una nuova dimensione professionalizzante che, come dimostra anche l’esperienza di Lenz, non esclude i più fragili.
Nella scuola, l’attività teatrale entra come una sintesi delle cosiddette coppie oppositive: teoria e pratica, arte e tecnica, disciplina e libertà, gioco e lavoro, abilità e disabilità. Ma queste coppie oppositive devono convivere e problematizzarsi costantemente per esistere. Ci sono perciò alcune parole chiave che dovrebbero secondo me caratterizzare i laboratori teatrali nelle scuole, e la prima di queste è “disomogeneità”: mettere gli studenti più bravi insieme a quelli più difficili, mescolare le età e le abilità avendo cura di evitare i sottogruppi di genere che potrebbero magari facilitare la finalizzazione artistica ma perderebbero di vista la finalizzazione pedagogica; insomma offrire attraverso il teatro la possibilità di giocare a essere tutti diversi, di trasmettere un senso di uguaglianza che ci libera dalla paura e dal disagio, dovrebbe essere la prima cosa in cui investire in un laboratorio teatrale. Grazie alla disomogeneità, che è poi un sinonimo di “inclusione”, anche il muro della disabilità si sgretola.
La seconda parola chiave il “desiderio”: investire cioè sul principio della volontarietà, che è fondativo dei laboratori e indispensabile alla loro efficacia, nonché sulla continuità di questo desiderio, che è l’elemento omogeneo da tutelare perché facilita il dialogo. Le metodologie didattiche ho adottato in questi anni tendono a essere uguali per tutti perché sono extra-ordinarie per tutti, abili o disabili, tredicenni o diciottenni, ragazzi che hanno padronanza con la lingua oppure no, eccetera.
La terza parola chiave è “peer education”: investire sull’essere gruppo e sull’educazione tra pari, come per esempio i maturandi che fanno tutoraggio ai neo-arrivati. La disomogeneità, infatti, non può essere governata solo dai docenti, anzi è strategico il contributo degli studenti interni al gruppo che abbiano specifiche doti socio-empatiche, merito proprio della convivenza in una scuola inclusiva. Nei miei laboratori, spesso sono gli adolescenti con disabilità a ricoprire il ruolo di educatori di loro compagni senza disabilità, poiché sono pronti al lancio, resistenti, ostinati, aperti al magico, puntuali, e spesso è attraverso l’esempio fornito dagli studenti con disabilità che i coetanei normali – nel senso di “immersi nella norma” – riescono a far affiorare la loro personalità.
Nel progetto “Adolescena” si investe sull’adolescenza che è una fase piena di domande, in cui assistiamo e partecipiamo alla costruzione della personalità di ognuno, individuale-sociale-politico-poetico. Ritengo che l’adolescenza non sia una condizione temporanea; ritengo anzi che sia la natura umana, contraddistinta da un’inquietudine che sta sempre con noi, a domandarci chi siamo ed è questa la nostra ricchezza. L’attore-studente è sempre portatore di altre abilità: non è dotato di una grande voce né di un’allenata agilità, ma è dotato di una mancanza. Dunque per chi guida gruppi di adolescenti non basta una patente – ovvero l’esperienza personale di vita e di studio, insieme alla pratica pedagogica – ma è necessaria anche una certa sensibilità, quella del desiderare a propria volta, che è lo slancio vitale da cui partire. Anche per noi che lavoriamo con gli adolescenti, essere dotati di una mancanza è una qualità da avere, è il quid che rende la professione dell’insegnante, del docente di sostegno e del pedagogo teatrale potenzialmente rivoluzionaria. “Sperimentare” è infatti la sesta e ultima parola chiave, ciò su cui dovremmo investire, unendo un percorso teatrale fatto a scuola con un alto valore artistico e un percorso formativo con un alto valore pedagogico, senza così rinunciare a nessuno dei due. Poi, non avendo la necessità di assecondare un pubblico né un paradigma di teatro dominante, e avendo la complicità di menti e corpi freschi e speciali, la seconda nostra sperimentazione dovrebbe essere quella di spingerci verso linguaggi artistici inediti, non convenzionali, coraggiosi; dunque la spinta finale è quella alla rivoluzione, a investire sulle reciproche potenzialità di un nuovo teatro e di una nuova scuola insieme. Scuola e teatro sono ancora gli strumenti per una rivoluzione urgente, cioè la rivoluzione dei più fragili. Citando in conclusione ancora Novarina: “Perché si è attori? Si è attori perché non ci si abitua a vivere nel corpo imposto, nel sesso imposto. Ogni attore è una minaccia per l’ordine dei corpi, per lo stato sessuato, e chi finisce a teatro è perché ha qualcosa che non ha potuto sopportare. In ogni attore c’è qualcosa che vuole parlare, un corpo nuovo”».

Agnese Doria (Altre Velocità)
«È il turno della danzatrice Gaia Germanà, che ha avuto una lunga esperienza laboratoriale con persone cieche insieme a Virgilio Sieni e Giuseppe Comuniello, e che oggi ci parlerà della sua esperienza come formatrice portata avanti all’Università di Bologna con i futuri insegnanti di sostegno per lavorare su come il corpo e la danza possano essere uno strumento di inclusività. Nonostante il corpo sia un grande tema di riflessione, a scuola si tratta di un grande rimosso. Allora rivolgo a Gaia due domande: quali nuove forme di sapere possono generare dei nuovi corpi in scena? E perché fare danza a scuola potrebbe o dovrebbe essere importante come strumento di inclusività?».

Gaia Germanà (danzatrice ed educatrice Muvet, Bologna)
«Da danzatrice ed educatrice sia nell’ambito scolastico che in altri contesti, con persone di età diverse e abilità diverse, vorrei partire con una veloce introduzione sul senso che ha per me la danza. La danza e il corpo sono strumenti di conoscenza e linguaggi che appartengono a tutte le persone: chiunque abbia un corpo può essere un danzatore, quindi è diritto di ognuno di noi poter accedere a questa possibilità espressiva e comunicativa. La scuola contiene persone molto diverse, quindi portare a scuola il corpo che danza è necessario in quanto bisogno dell’essere umano, e bisogna trovare le occasioni per farlo, se non portando un esperto dall’esterno, almeno dando più strumenti possibili ai docenti che ogni giorno si confrontano con le ragazze e i ragazzi attraverso il proprio strumento-corpo. Infatti, a scuola dovrebbe esserci sempre la possibilità di ragionare in termini di corpo: i docenti dovrebbero tenere conto che il corpo è sempre a scuola e quindi è anche attraverso di esso che passa la relazione educativa. Per questo è fondamentale attingere al linguaggio della danza e ai suoi strumenti artistici, all’esperienza propria degli artisti che fanno ricerca sia in ambito di linguaggi del contemporaneo che in ambito educativo e formativo, con risvolti sociali e comunitari. Eppure, il corpo a scuola viene invece spesso dimenticato oppure lasciato fuori dalla porta.
L’esperienza nel 2013/2014 con le future insegnanti di sostegno di scuola primaria è stata per me un laboratorio molto prezioso, perché con una ventina di studentesse di scienze della formazione primaria, ci si era presi il tempo per ragionare insieme in maniera pratica, cioè facendo delle attività e non solo raccontandole. In un tempo abbastanza lungo, abbiamo sperimentato la modalità di essere nel proprio corpo durante la relazione educativa, che è ciò che le studentesse si stavano apprestando a vivere nel rapporto con le proprie classi, quando sarebbero diventate insegnanti di sostegno alla scuola primaria. Quindi è stata posta molta attenzione al tema dell’inclusività, perché alcune di loro avrebbero potuto avere nel proprio gruppo-classe alcune persone con una qualche forma di disabilità sensoriale, motoria o cognitiva. Ciò che abbiamo provato a fare insieme è stato innanzitutto ragionare sul proprio corpo, su cosa significa riconnettersi con lo stare nel proprio corpo e sul portare davvero il proprio corpo a scuola. Le studentesse dicevano che spesso si trovavano a dover appendere il proprio corpo fuori dalla porta e dimenticarsene, forse perché a scuola c’è la necessità di trattare la trasmissione del sapere prescindendo dal proprio corpo; ma in realtà questa è solo una sensazione apparente: sappiamo infatti che la comprensione del mondo avviene anche attraverso il corpo, perché noi siamo il nostro corpo e quindi la condizione necessaria per conoscere, capire e apprendere è proprio quella dell’agio, dello stare bene con sé e con gli altri, del condividere uno spazio piacevole di relazione e apprendimento.
Un altro tema emerso è stato quello del disagio rispetto agli spazi scolastici, che spesso negano il corpo perché lo costringono a stare seduto e a non avere dei luoghi in cui si possa aprire lo spazio e quindi potersi muovere agilmente. Infine, il terzo punto da cui siamo partiti è stato la difficoltà del contatto: oggi con il covid la questione è molto complicata, ma già diversi anni prima esisteva la paura del contatto con l’altro, soprattutto se considerato “diverso”, come accade con la disabilità.
Da tutti questi dubbi che emergevano dal corpo di ognuna delle studentesse, siamo partiti per ragionare insieme sul proprio corpo come strumento di espressione e comunicazione, ma soprattutto di possibilità di incontro e relazione con l’altro. Attraverso alcune semplici pratiche di movimento e relazione, abbiamo lavorato con lo strumento-corpo facendo un vero e proprio laboratorio di movimento e di danza, affinché le studentesse potessero attraversare l’esperienza di misurarsi con il proprio corpo quando comunica e incontra l’altro. Si è trattato di compiere alcuni esercizi di prossimità per stare bene insieme sospendendo il giudizio, provando a esplorare tante possibilità di movimento e infine a reinventarle, trasformarle, comporle con lavori di coppia o di gruppo per imparare a cooperare.
Chi fa laboratori di danza conosce molto bene queste cose, ma farlo con delle future insegnanti di sostegno fa capire che c’è ancora bisogno di rinfrescare la memoria sul tema del corpo, in particolare oggi con una situazione talmente difficile a causa del covid – che ha portato la scuola a negare ancora di più il corpo – che c’è bisogno di ascoltare il corpo con ancora più attenzione, poiché è una risorsa che può aiutarci a trovare strade nuove o a cui non avevamo pensato. E facendolo insieme all’altro è ancora più facile trovare soluzioni, poiché spesso è la classe – ovvero il corpo di tutti – che parla, è l’intelligenza collettiva che suggerisce percorsi possibili.
In una delle lezioni di questo laboratorio ho portato Giuseppe Comuniello, un danzatore non vedente con cui collaboro da tanto tempo, e che ho portato con me per molte ragioni. La prima è che secondo me portare degli artisti nel contesto scolastico ha molto senso, perché è importante condividere uno sguardo sulla danza e il teatro. Inoltre l’ho fatto per allargare le prospettive e le possibilità: da danzatore professionista e cieco, Giuseppe ha un suo proprio stile educativo che non si appoggia sullo strumento visivo – ovvero sul copiare il movimento di un altro – bensì usa altre tecniche non abituali e fuori dagli stereotipi della danza, con cui ha stravolto molte aspettative e ha ridotto la comune difficoltà di lasciarsi trasportare e andare oltre con il proprio corpo che danza, lavorando a occhi chiusi sulla tattilità e sull’ascolto dello spazio».