Il bisogno collettivo di un “grand jeté” nella lettura di Anna e Camilla.

Silenzio e disagio. Un applauso spezza il mutismo collettivo dando inizio a quella relazione tra ballerini e pubblico che rappresenta il punto nodale di Grand Jetè, spettacolo a opera della coreografa Silvia Gribaudi. Un lavoro di destrutturazione tra inizio e fine che mira a lasciarci interdetti e ci fa intraprendere in questo modo un percorso individuale di ricerca sul ruolo che ricopriamo noi spettatori.

La MM Contemporary Dance Company si affida a Silvia Gribaudi per esplorare il significato metaforico del Grand Jetè nella vita di tutti i giorni. La regista, assieme a dei ballerini dalla fisicità canonica per il mondo della danza classica, si focalizza sulla contrapposizione tra diversità e omologazione, che vengono proposte in scena attraverso una differenziazione dei movimenti compiuti dai ballerini, i quali dapprima ballano come un corpo unico ma poi si destreggiano in una danza individuale.

Alcune parole risuonano: passion, fashion, perfection e obsession, in un turbinio di assonanze proposte anche dal pubblico che si ingegna in un affanno generale. Una persona in sala urla “satisfaction”,  un’altra “conversation”, e poi è la volta di “immigration”, “pollution”, “depression”, in un bisogno collettivo di far emergere la propria voce su temi che rispecchiano i problemi della società odierna. Grazie al pubblico dunque, è presente un’evoluzione della narrazione stessa, che si perfeziona sulle idee della platea presente e che termina con l’evocazione di un’altra espressione: “jump”, accompagnata dal gesto invitante delle braccia degli attori che ci chiamano a loro. La compagnia abbatte la quarta parete, in un dialogo inaspettato, non sempre immediato e che a tratti risulta forzato. Infatti il pubblico non sa bene come atteggiarsi e come rispondere a queste provocazioni. Codesta visione può essere però integrata dall’esperienza degli spettatori che ci sono affianco e dal loro modo di “stare” e di partecipare a questa esperienza, che da individuale si tramuta in qualcosa di collettivo. L’obiettivo è dunque la costruzione di un’intelligenza collettiva che ci aiuta a “vedere” e comprendere ciò che non avremmo visto da soli.

Questa continua interazione con il pubblico, a tratti estenuante, rappresenta una strategia della Gribaudi di alleggerire l’atmosfera e di distogliere lo spettatore dall’instancabile tentativo della mente di produrre necessariamente un giudizio su ciò che si sta guardando. Un tira e molla persistente che non cessa di chiamare a sé il pubblico e subito dopo lasciarlo in sospeso ricolmo di dubbi.

Lo spettacolo potrebbe risultare infantile e adatto ad un pubblico fanciullesco, dunque più libero di esprimersi e di lasciarsi coinvolgere, ma invece è proprio chi sente maggiore pressione sociale e chi trova difficoltà nell’abbandonare quella compostezza assunta negli anni a trarne profitto, sempre se è disposto ad ampliare i suoi orizzonti.

Anna Calandrino e Camilla Galasso