Gran Jetè di Silvia Gribaudi è una performance spiazzante che ci ha fatto sorgere un interrogativo: ci vuole solamente intrattenere o vuole lasciarci nel dubbio? Gribaudi, studiosa del corpo e della sua decostruzione, ci pone di fronte alla possibilità di scegliere: partecipare o limitarci a guardare ciò che accade? Scelta che ha creato nella platea del Valli imbarazzi e reazioni contrastanti: alcune persone hanno abbracciato la richiesta di mollare qualsiasi freno inibitorio, altri l’hanno rifiutata perché l’imbarazzo ha preso il sopravvento. Un’evidente contraddizione che ci fa pensare possa essere riflesso della società attuale.
Fashion, perfection, obsession vengono ripetute, urlate e ancora ribadite dal cast per esplicitare la filosofia di ciò che stiamo assistendo; la cancellazione dell’omologazione finalizzata all’inclusione. Nello spettacolo la coreografa continua il suo percorso per abbattere stereotipi; scontrandosi con un’idea di danza classica, burlandosene tanto da accennare a passi celebri senza mai riprodurli. Inoltre desidera normalizzare l’accettazione del diverso, con il rischio che, sconfiggendo un luogo comune, se ne crei un altro capace di assumere la forma di perfezione, così odiata dalla stessa creatrice dell’opera. In questo senso Gran Jetè è una performance politica, educativa e pedagogica poiché vuole portare lo spettatore in una condizione di libertà decisionale che rimanda alla spensieratezza dei bambini. Ciò accade grazie alle continue interruzioni in cui durante lo spettacolo si alternano sequenze di danza contemporanea rapide, movimenti scoordinati o estremamente eleganti e inviti semi ironici, rivolti al pubblico dagli attori, a ballare, saltare, cantare o comunque interagire per creare quell’ambiente voluto dalla Gribaudi.
L’intento dell’autrice non viene sempre compreso e può portare chi guarda a non essere partecipe e a considerare l’opera didascalica come esplicito insegnamento di qualcosa di ovvio. In conclusione, Gran Jetè emerge come intrisa di complessità e contraddizioni, mirando a decostruire il corpo, la danza classica e, in definitiva, gli stereotipi della società contemporanea. La sfida lanciata al pubblico, invitandolo a partecipare attivamente o rimanere un osservatore, riflette la natura provocatoria dell’arte di Gribaudi, che cerca di rompere le barriere tra esecutori e spettatori. La tensione evidente tra coloro che abbracciano l’invito alla libertà espressiva e coloro che si ritraggono per l’imbarazzo, sottolinea la difficoltà di superare le convenzioni sociali radicate. I concetti chiave di fashion, perfection e obsession ripetuti dal cast si rivelano una critica diretta all’omologazione, puntando a una società più inclusiva. Tuttavia, la comprensione dell’intento dell’autrice non è universale e la percezione di un messaggio didascalico potrebbe offuscare la bellezza della sfida artistica.
In definitiva lo spettacolo riesce a suscitare dibattito e riflessione, rivelando le contraddizioni della società contemporanea e la sfida continua nel perseguire la diversità e l’accettazione. L’opera, con la sua capacità di generare interpretazioni variegate, dimostra il potere dell’arte nel suscitare emozioni, interrogativi e, soprattutto, la volontà di spingersi al di là dei confini stabiliti.
Enrico Giacobbi
Andrea Saccani