Camilla: “Ci troviamo in un mondo sempre più globalizzato e ci chiedevamo perché, proprio ora, si sente sempre di più la solitudine a tal punto da esserci stata la proposta di un vero e proprio Ministero della Solitudine?” L. F. Natoli: “In buona sostanza non è un’opinione ideologica ma semplicemente abbiamo raccolto fatti, impressioni e dati. Globalizzazione e reti di comunità tra uomini e donne di questo nuovo mondo non sono in collegamento. Senza voler fare la moralista riguardo a questo argomento, nella nostra società si può individuare un paradosso: non è perché ci assomigliano tutti e abbiamo tutti gli stessi negozi in cui comprare gli stessi prodotti, ma, anche se siamo immersi in un contesto amicale o familiare, alla fine le questioni riguardano le reti più ampie, ovvero le piccole grandi comunità in cui si possono incontrare persone che ci assomigliano o meno. Abbiamo l’impressione che le pareti sottili dell’acquario messo in scena – che ci ha consentito di mostrare tante vite in parallelo – sono in realtà molto più spesse di quanto possiamo immaginare.”
Filippo: “Come mai scegliere come base per lo spettacolo proprio questo fatto di cronaca, tra tutti quelli possibili?” L. F. Natoli: “Eravamo in un momento un po’ particolare nel gruppo: dopo aver fatto When the rain stops falling, ci siamo messi a leggere per 4-5 mesi diversi testi in tantissime lingue per riflettere su cosa fare. Nel frattempo si è visto l’interesse da parte di tutti nel lavorare su una scrittura originale, una drammaturgia, non solo una scrittura di scena. Ognuno di noi stava vivendo le proprie vite urbane – non è una notazione di seconda importanza, poiché Il ministero della solitudine è uno spettacolo molto urbano – e negli incontri fatti con sconosciuti o conoscenti superficiali si è radicata l’impressione di continuare a sfiorarti senza toccarci, ad interagire senza un vero e proprio affetto. Una notte Maddalena Parisi ha riportato sul gruppo la notizia del Ministero della Solitudine in Inghilterra e, per riderci sopra, ha scritto “Mi sa che mi candido”. All’inizio è stato preso sul ridere, ma, andando avanti, il gruppo ha iniziato ad informarsi e riflettere sul tema e su quanto è a noi vicino. Ha fatto rendere conto di aver trovato un luogo non fisico o burocratico, ma un “libero oggetto” dove poter far confluire idee, temi, profili di figure, affezioni e una postura di scrittura che fosse disponibile alla drammaturgia “per flash”, per sfioramenti, per incontri. Lo abbiamo messo in verifica invitando il gruppo e, parlandone per 3 giorni, ci siamo resi conto che poteva essere un progetto efficace e interessante. Sono nate quasi subito le basi per queste figure – non “personaggi” – che avevano desiderio che si costruissero.”
Camilla: “Sempre per ciò che riguarda i nostri giorni, qualche anno fa è scoppiata la pandemia di covid e volevamo sapere se questo ha cambiato e come ha cambiato lo spettacolo, essendoci stato da un lato un rinnovato bisogno di socializzazione dall’altro un maggior senso di solitudine?”
L. F. Natoli: “L’effetto che ha avuto sullo spettacolo è stato molto strano. Innanzitutto in scena le comunicazioni sono quasi sempre mediate, che siano attraverso un computer, un telefono, una segreteria, le pareti: madre e figlia non parlano mai direttamente. Questo lavoro di supporti è aumentato vertiginosamente proprio durante la pandemia, senza rendercene conto, in modo involontario. Allo stesso tempo, però, grazie ad ERT che ci ha accompagnato in questo processo per fasi molto particolare, di fatto è aumentato anche l’opposto: noi stavamo lavorando in modo collettivo, mettendo in comune tutto, come se tutti noi fossimo in frequenza, proprio come dice Alma nello spettacolo. Stavamo molto più insieme e ci è stato ancora più chiaro il valore del mettere in comune e dello stare in compagnia in periodo di pandemia. Ci siamo indagati su una solitudine più attiva, da un certo senso anche positiva, proattiva: il lavoro ha come intensificato i “colori” dello spettacolo”: ci muovevamo, infatti, tra la gioia di poter mettere in comune e, purtroppo, la consapevolezza dell’isolamento.”
Filippo: “Un’altra domanda è sorta mentre discutevamo attorno allo spettacolo: alcuni di noi si sono domandati se fosse un vostro desiderio far immedesimare il pubblico oppure se la messa in scena era da viversi come una rappresentazione a cui assistere, senza necessariamente provare empatia per queste figure. Da quale prospettiva nasce lo spettacolo?” L. F. Natoli: “Non sono certa che da questo punto di vista abbiamo fatto una scelta ideologica o di prospettiva a monte. Sicuramente il grado di immedesimazione che si produce nello spettacolo è determinato dal dispositivo scenico scelto molto propenso a far assistere, come appunto fosse un acquario, come fosse il palazzo della finestra di fronte di Hitchcock. Sicuramente questo immaginario ce l’avevamo in mente. Questo è anche un progetto di visione che desidera “costringere a vedere” per portare a riflettere. D’altro canto però essendo confluiti in questo lavoro affezioni, interessi, amori, passioni molto personali di tutti noi, è inevitabile (e forse anche felice) che alcuni spettatori ci si riconoscano fortemente. Diciamo che non abbiamo voluto fare uno spettacolo-manifesto ideologico. Quindi se mi dite che alcune persone, un numero x, si sono immedesimate, questo è un piacere quando si tratta un argomento così complesso e con un dispositivo multiplo che può essere anche complicato da seguire.”
Camilla: “Nello spettacolo la solitudine ad un certo punto si mette in relazione con il cambiamento climatico e dunque anche con la sopravvivenza. Perché la scelta di questa relazione tra questi due temi?” L. F. Natoli: “Il ragionamento, la percezione che ne è alla base riguarda tutte le comunità che non sono solo le comunità degli uomini. Ci occupiamo della scrittura intorno alla fantascienza da tanto tempo, questo significa ragionare con tanti libri; uno su tutti per esempio La malinconia del mammut di Massimo Sandal, che è uno straordinario biologo e scrittore che ragiona di estinzioni. “Il patto di credenza con il mondo”, il fatto che in qualche modo non crediamo più al mondo, inteso come ecosistema complesso abitato da tante specie è uno dei nodi di un nostro modo di pensare al teatro. Anche in When the rain stops falling in fondo: questa pioggia che non finisce mai e che racconta la crisi climatica è anche metafora di un viaggio nell’anima. Francesco Milano lo dice molto chiaramente “sarete come il dodo, ultimi della vostra specie”, ma ciò non significa che domani l’uomo si estinguerà ma che quando le alleanze e le reti, i collegamenti che sentiamo si slacciano, la solitudine diventa feroce. E’ come pensare, altamente probabile, che la specie umana sia piuttosto sola nell’universo, soprattutto se si parla di specie intelligenti. Già solo questo pensiero a me e ad Alessandro Ferroni ci produce una solitudine immensa. Come dice Milano “che cupezza, Dio che cupezza”. E’ un tema ma anche una questione personale per alcuni di noi di più, per altri meno, ma è stata chiara la direzione collettiva da voler seguire.”
Filippo: “Può raccontarci il motivo alla base della scelta dei brani musicali presenti nel Ministero? L. F. Natoli: “Questa domanda mi dà modo di rispondere sia a nome mio che di Alessandro: siamo una creatura multipla insieme a tutta Lacasadargilla. Come sono state scelte è una risposta che dovrebbe darvi direttamente Alessandro, sarebbe più specifico di me. Da citare il tempo di lavoro con Marta Ciappina, che è l’architetta dei corpi e dei movimenti,ma anche del testo poiché le due cose non sono separate. Ha provato ad allenare la sensibilità di questi corpi porosi, vaganti, camminanti, passeggianti, molto legati alla solitudine. Ha fatto tutto un lavoro che voi avete visto in parte sul lip sync, cioè sull’accennare pezzi di canzoni con le labbra, con il corpo, quello che produce nei corpi mnemonici. Ognuno degli attori aveva scelto una o più canzoni. A partire da queste, Alessandro in maniera molto minuziosa assieme agli attori ha voluto selezionare canzoni che chiaramente descrivono un larghissimo momento storico (30-40 anni) di un certo tipo, con un impatto culturale pop, se vogliamo. Un pop raffinatissimo, però sostanzialmente l’ambito è quello. E una volta avvenuta questa selezione più larga, è diventata più stretta, infatti se si presta attenzione, non c’è una parola di una di ognuna di quelle canzoni che non appartenga all’argomento che stiamo trattando in maniera più o meno diretta. D’altro canto per esempio, come dice Alessandro, l’uso delle canzoni ha dei poli estremi. Sweet dreams di Primo è la canzone che più esce fuori, più forte, più intensa, più violenta e dura meno, quindi ha proprio una verticale; mentre Please don’t go di F, è come se accompagnasse F punteggiandolo non dico per tutto lo spettacolo, ma quasi. Quindi allo stesso tempo le canzoni raccontano se stesse e un impatto culturale, ogni parola è in qualche modo coerente, ma fanno anche da partitura emotiva e raccontano il tipo di temperamento dei personaggi.”
Camilla: “Infine: perché la scelta di parlare di figure e non di personaggi?” L. F. Natoli: “Perché una figura a differenza di un personaggio porta in scena, rappresenta, contiene un’idea, mentre un personaggio, del tutto legittimamente, ha più appunto il suo arco, il suo percorso, quindi è più complesso, sa di portare un’idea quando porta se stesso. Quindi abbiamo sempre parlato di figure anche per dire che sono qualcosa di meno e qualcosa di più libero dei personaggi. Avete visto che le scritture sono più flash, le possiamo lasciare andare fuori dalla finestra, non seguire un tratto delle vite che raccontano. Certo è che abbiamo fatto uscire dalla porta e rientrare dalla finestra i personaggi per esempio nei dialoghi, quindi di fatto c’è una sorta di danza asimmetrica tra figura e personaggio.”