“Il ministero della solitudine” di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni attraverso cinque figure ci parla di cinque diverse solitudini: la loro biografia si intreccia al racconto di come vivono questa sorta di “prigionia”. Ciascuna solitudine è messa sotto una lente di ingrandimento che consente di analizzarla in una maniera quasi esasperante condita da una vena di inquietudine. Declinata in diversi aspetti della loro vita, fa insorgere una problematica che vorrebbero risolvere grazie all’aiuto del Ministero della Solitudine che tuttavia risulta inutile e inconcludente. Le sfumature che la solitudine assume toccano diversi ambiti: quello lavorativo, personale, emotivo, sociale-relazionale e caratteriale. I casi, presi singolarmente possono apparire ambigui e poco approfonditi: caratterizzando infatti la figura solamente da un certo punto di vista, perde le complessità che si muovo nell’animo umano caricandosi di una sensazione di irrealtà che permane come un cupo retroscena durante tutto lo spettacolo. Le figure vengono così parzialmente disumanizzate da tutte le possibili ulteriori gradazioni di umanità. Forse è solo riunendo sotto forma di un unico grande organismo tutte le cinque personalità che riusciamo a dare spazio e voce ad un solo personaggio complesso e parlante il quale ci mostra tutte le sfaccettature di un animo che soffre. La solitudine in questo spettacolo viene percepita per certi versi come un “disturbo mentale”, dunque viene vissuta in maniera negativa e con accezione pessimista. Mentre invece può essere molto di più e svolgere una funzione particolarmente importante. Ad oggi la solitudine puó essere ricercata e rappresentare una via per approfondire la ricerca di se stessi, un modo per conoscere il nostro lato più profondo, il nostro io più nascosto e spesso a noi sconosciuto. Nello spettacolo l’uso del monologo e di una scenografia prismatica che ci mostra le tante facce di una stessa condizione di isolamento acuiscono emarginazione e distanza. Le figure tentano continuamente di intrattenersi da soli, discorrendo in soliloqui senza fine e anche quando si ritrovano insieme a parlare, ogni figura mantiene un distacco tangibile dal prossimo e da tutto ció che lo circonda, rimanendo in questa bolla invisibile che sembra indistruttibile come se la sua situazione non sia di per sé curabile. Nell’ultima scena, quella in cui vediamo tutti i protagonisti cantare al karaoke, si vede un barlume di speranza perchè in quella scena tutti provano ad avere un rapporto con qualcuno attraverso il canto, pare quasi percepirsi un vero e proprio collegamento con il prossimo, qualcosa che dall’inizio c’è sembrato, per queste figure, qualcosa di estremamente difficile e per certi versi, anche faticoso.
Anna Normanno e Carlo Solimano