Nell’ambito del laboratorio di giornalismo e critica musicale curato da Altre Velocità per Emilia Romagna Festival, i ragazzi e le ragazze che compongono la redazione hanno incontrato il direttore Massimo Mercelli per sottoporgli domande, curiosità e desideri.
Matteo: Considerato il contesto sanitario emergenziale, quest’anno Emilia Romagna Festival si aspetta un pubblico differente?
Massimo Mercelli: «Tutte le attività di spettacolo di quest’estate soffriranno di un eccesso quantitativo di offerta: molti artisti devono recuperare date e piazze perse durante l’inverno e la primavera del 2020. Questo genererà una sorta di effetto a imbuto, perché offriremo tanti concerti a fronte di una minore disponibilità di posti, soprattutto perché la capienza del 50% non è relativa ai posti che ci sono nelle sedi, bensì ai posti che sono in agibilità. Faccio un esempio: la Rocca Sforzesca di Imola anticamente teneva 1200 spettatori, che poi sono stati ridotti a 500 poiché non aveva le uscite di sicurezza (chiaramente Leonardo non ci aveva pensato). Con le attuali norme anti-Covid ci ritroviamo così ad avere 250 posti in un luogo che potrebbe tenerne 1200. Un altro problema risiede nel fatto che molte istituzioni hanno anticipato in estate parte della programmazione di settembre e ottobre per riuscire a realizzare gli eventi prima di un’altra eventuale chiusura. Poi c’è tutto l’orizzonte legato al pubblico: nella musica classica, soprattutto nella lirica e nella cameristica, il pubblico è anziano e quindi ci sarà chi è ancora spaventato e chi, purtroppo, è venuto a mancare.
Sappiamo che i processi di rinnovamento del pubblico sono lentissimi. Noi abbiamo iniziato a ragionarci quindici anni fa, ma come sappiamo nel mondo culturale non si ottengono subito dei risultati misurabili. Ci stiamo provando da tempo e abbiamo già visto dei traguardi, proponendo concerti che potessero avventurarsi e abbracciare diversi stili. Io ho sempre avuto un canale privilegiato con la musica contemporanea (da Philip Glass a Michael Nyman), con una particolare attenzione alla musica creata per i film, che ritengo sia un ottimo veicolo per coinvolgere la gente. Il contemporaneo, per me, è cum tempore. La musica da film è dei nostri tempi, ma attenzione a confonderla con la sperimentazione: quest’ultima è necessaria, poiché se non si sperimenta non si approda a nuovi linguaggi, a nuove forme di musica, di pittura, eccetera».
Edoardo: Si dice spesso che usciremo diversi dopo la pandemia. Secondo lei questo vale anche per la musica? Cosa potrebbe cambiare nella proposta musicale post-pandemica?
M.M.: «Sono fermamente convinto che cambierà la situazione delle attività culturali, per motivi di rinnovamento, di pubblico e di gusti. Ho notato che c’è anche una forte tendenza a programmare del crossover, che non sempre amo perché a volte è più un refugium peccatorum per strumentisti e artisti non di prima categoria, e ciò che è più pericoloso riguarda il pubblico che viene sedotto da questa offerta di scarso livello. Questa è una cosa che mi spaventa abbastanza. Inoltre spero che ci libereremo dello streaming ma anche che rimarrà come accessorio divulgativo, perché il pubblico dev’essere contemplato nel concerto, deve sentire ogni respiro e ogni eventuale errore. I concerti in streaming non favoriscono i giovani artisti, perché fare un concerto in streaming è un costo dal punto di vista della tecnica e non vi è nessun guadagno dalla vendita dei biglietti. Invece un festival importante, con un certo budget e un ensemble con la possibilità di suonare in serate importanti, può permetterselo. Per esempio, nel corso del primo lockdown la Filarmonica di Berlino ha aperto gratuitamente gli archivi, per cui da casa, con un televisore e un impianto stereo capaci di garantire un’ottima qualità di video e ascolto, secondo voi vado ad ascoltare lo sconosciuto quartetto d’archi del conservatorio di Matera? Si sta riflettendo, per le nostre categorie più deboli e fragili, quello che è accaduto nell’intera società: i ricchi diventano più ricchi, i poveri diventano più poveri e la classe media, che è quella che fa da collante, paga per tutti. Lo stesso è accaduto nel campo culturale: le popstar hanno incrementato le vendite e i download. Questo fa sempre parte di un percorso per il quale non sono molto a favore, perché chi opera in campo culturale deve tenere conto della propria responsabilità, che è di stampo educativo. Questa è la principale differenza che ci distingue dallo showbusiness, all’interno del quale ci sono grandissimi artisti che mi piacciono e con i quali collaboro; però sono anche due canali diversi, che possono al massimo essere complementari».
Adriana: Gli artisti nell’ultimo anno hanno fatto di necessità virtù con i mezzi disponibili e hanno spopolato i concerti live trasmessi su internet. Avete effettivamente pensato di rendere fruibili a tutti alcuni concerti? Noi giovani siamo un potenziale target dell’Emilia Romagna Festival: quale può essere la strategia per attirare la nostra attenzione, tramite i social magari, anziché puntare sulla varie testate giornalistiche come mezzo di diffusione?
M.M.: «Considero già questo incontro uno dei tentativi di esplorare dei canali più adatti e più vicini al mondo dei giovani, per cercare di coinvolgervi, di farvi conoscere quello che facciamo e di indirizzarvi verso la programmazione che proponiamo. Riguardo ai concerti in streaming sono stati fatti alcuni tentativi, però per mia scelta personale, invece che concerti veri e propri si trattava più di spettacoli con anche scene recitate, e abbiamo coinvolto in questi concerti degli artisti che erano “popolari” ma nel senso buono, come per esempio Elio di Elio e le Storie Tese. Con lui abbiamo inventato una favola: Mozart non è morto a Salisburgo, ma essendo rincorso dai creditori perché non rispettava le commesse, fa finta di morire e si trasferisce a Bologna, dove aveva studiato, da un suo vecchio amico che vuol fare il compositore ma non ha talento, che si chiama Rossini. Perciò Mozart scrive le opere per Rossini, finché muore veramente. E qui si capisce perché Rossini a poco più di trent’anni smette di scrivere. Ci siamo inventati questa favola scrivendo il testo e mettendola in musica, ritenendola adatta a una divulgazione in streaming, perché era più una trasmissione televisiva che un concerto. In un concerto si deve apprezzare il suono di uno strumento, poiché dietro al costo anche elevato, per esempio, degli strumenti Stradivari, vi è una qualità di suono affascinante, per cui non esiste nessun tipo di microfono che lo possa trasmettere, e anche se esistesse, le persone a casa dovrebbero avere un’apparecchiatura che in pochissimi hanno.
L’altra esperienza di streaming per me è stata quella come concertista, perché suonando nelle sale più importanti mi sono trovato a fare dei concerti via web per delle orchestre o per delle associazioni. Però vi assicuro che suonare davanti a dei microfoni non è una delle esperienze migliori che si possano fare. Questo perché volare con la musica, dare sfogo alla fantasia, stabilire quel contatto che senti col pubblico, quando hai tante persone e suoni pianissimo e c’è un silenzio di tomba, ti permette di capire veramente che è si è creato un qualcosa che unisce chi suona e chi ascolta. Questo è l’aspetto più ridotto in un concerto in streaming. Io l’ho interpretato come un mezzo di emergenza, come una medicina: una volta che guarisci, però, smetti di usufruirne».
Alexandra: Come mai in un festival di musica colta del 2021 c’è una minoranza di artisti contemporanei e di compositori? A influire sul programma è più la scelta del direttore oppure i gusti del pubblico?
M.M.: «Nel nostro festival gli artisti contemporanei non sono una minoranza rispetto allo standard generale. La contemporaneità è poco diffusa dal mercato italiano, il che comporta un grande svantaggio per artisti e compositori contemporanei: ma se non sosteniamo la creatività dei compositori, rimarremo senza musica. Per questo motivo, rispetto allo standard generale Emilia Romagna Festival ha sempre cercato di collaborare con artisti contemporanei. Abbiamo avuto l’occasione di ospitare le prime mondiali di alcuni compositori tra cui Sofia Gubajdulina, Philip Glass e Michel Nyman, vincitori di premi Oscar e Leoni d’oro, i quali hanno lasciato un’impronta significativa sulla scena contemporanea della musica colta. Vorrei ricordare anche coloro che ci hanno lasciato negli ultimi anni, come Bakalov, Penderecki e il mio carissimo amico Ezio Bosso. La contemporaneità è poco difesa dal mercato italiano e in generale del sud Europa, ed è un problema. ERF è stato vincitore di alcuni bandi europei rivolti soprattutto alla promozione di giovani compositori: uno di questi progetti si sviluppava in collaborazione con un circuito radio di musica classica europea – in Italia per esempio c’era Radio Tre Suite, in Germania era la Bayerischer Rundfunk, in Inghilterra la BBC. Con venti persone in sala riuscivi a raggiungerne quasi diecimila tramite il circuito delle reti radiofoniche europee. Tuttavia, quando si entra in un contesto giovanile di musica colta si deve far fronte anche alla sperimentazione, e il pubblico alle volte non è predisposto a questo tipo di approccio. Quest’ultimo elemento ha favorito la nascita di molte realtà che prediligono composizioni più lineari rispetto alla sperimentazione, motivo per cui, a seguito del suo centenario, oggi abbiamo Piazzolla programmato in qualsiasi contesto immaginabile. Io avevo 25 anni quando suonai con Astor Piazzolla: è una figura geniale, ma difficilmente sarà questa la figura che troverete nei vari programmi di quest’anno, dove troppo spesso si predilige il Piazzolla semplice da suonare e quindi anche semplice da programmare, e questo è un po’ come andare dalla parte del legno anziché cercare di modellarlo».
Samuele: Nell’anno e mezzo di pandemia la classe dei professionisti dello spettacolo non è stata presa in considerazione né socialmente né professionalmente. In qualità di direttore artistico che ha avuto modo di collaborare e conoscere moltissimi artisti, cosa crede che si possa cambiare per rivalutare professionalmente queste figure?
M.M.: «Io mi considero in una posizione privilegiata, in quanto sono sia concertista che direttore artistico, pertanto ho una visione ampia dell’argomento. La nostra categoria di professionisti è ondivaga, essendo formata da un’assemblea di individualismo collettivo difficile da gestire. Ricordate come nel 2020 venivano caricati in rete filmati con mini-concerti, esibizioni alle finestre e sui balconi? Tutte cose che dopo meno di un anno sono scomparse dai radar. Questo dimostra che si tratta di una categoria che alle volte tende all’autocommiserazione, quando invece ci sarebbe tanto bisogno di prendere questo toro per le corna. Fellini ci ha fatto anche un film, Prove d’orchestra, dove stigmatizza l’individualismo collettivo della categoria dei musicisti, degli attori, dei ballerini, di chiunque insomma si occupi del nostro campo a livello professionale. Poi c’è stata anche l’ingerenza della politica: nell’estate del 2020 era paradossalmente più facile programmare spettacoli che musica, poiché le regole sulle percentuali di persone e i distanziamenti erano più chiare. Un atto coraggioso è stato quello del Ravenna Festival che ha inaugurato con il concerto amplificato di Riccardo Muti, disponendo i musicisti distanziati tra di loro. Anche in questa situazione i colleghi si sono limitati alla polemica, senza tuttavia suggerire idee costruttive. L’attuale contesto a livello regolamentativo oggi è quasi ingestibile. E pensare che Agis e Italia Festival avevano calcolato delle statistiche per cui su qualche centinaio di migliaia di spettatori, in tutta Italia era stato certificato un solo contagiato. Ribadisco che per me i teatri sono luoghi sicuri, poiché sono gli unici luoghi in cui il distanziamento è realmente rispettato. Ma abbiamo un altro dato veramente negativo: il disgregarsi della categoria ha fatto sì che la politica si sia dimenticata molto presto dello spettacolo ma anche dei musicisti stessi, degli operatori di palcoscenico, dei fonici, dei compositori e del pubblico che usufruisce della musica, ed è un peccato. Noi abbiamo dedicato il festival di quest’estate a tutte le categorie. Durante la conferenza stampa ho lasciato la parola sia ad artisti come Nicola Piovani e Uto Ughi, sia ai tecnici che montano luci e amplificatori. Questi ultimi hanno detto una frase molto toccante: “Se l’anno scorso non ci fosse stato l’Emilia Romagna Festival che ci ha permesso di lavorare per tre mesi, avremmo chiuso”. Queste persone sono la filiera non protetta, eppure le dimentichiamo sempre. Chi fa l’artista, soprattutto chi ha alle spalle una carriera importante, ha il privilegio di poter non lavorare e di vivere di rendita. Al contrario, chi si occupa degli allestimenti e delle scenografie, di amplificazioni e di luci, è una categoria di lavoratori a chiamata che guadagna solo quando ha un incarico vero e proprio. Questo è il motivo per cui abbiamo insistito sul dedicare questo festival a chi le luci le accende, e non a chi sta sotto le luci».
Cecilia: L’implementazione del liceo musicale ha reso la musica “colta” di fatto più appetibile ai giovani oppure, considerando che è stata tolta dalle altre scuole superiori, paradossalmente ha reso questo genere ancora più d’élite?
M.M.: «Innanzitutto, credo che il liceo musicale sia un’ottima cosa per questo motivo: dà una preparazione, al di fuori dello strumento, che può permettere di trovare anche un altro lavoro. Le persone chiamate a suonare sono tante, purtroppo però poche riescono a farne una professione. Essendo un musicista di formazione classica, tenendo conto che ho cominciato a suonare a dodici anni e che non ho compiuto nessun altro studio, a diciannove anni mi sono ritrovato a essere docente di conservatorio quando ancora il diploma si otteneva in sette anni più uno. L’approccio tra docente e allievo era diverso e molto artigianale. Il primo, in generale, era coinvolto costantemente in attività di tipo concertistiche o orchestrali, quindi aveva modo di vivere sempre la musica. Adesso il panorama è cambiato moltissimo. Avere tolto la musica da tutte le altre scuole è stata una sciocchezza sconsiderata. Un altro grande errore che riguarda l’Italia è che, se per esempio puoi giocare a calcio con gli amici e farlo a livello amatoriale per tutta la vita, le scuole superiori come il conservatorio tendono a formare professionisti, persino troppi. Bisognerebbe invece sostenere la categoria degli amateurs, che non è assolutamente un dispregiativo, perché suonare uno strumento o cantare in un coro è un fatto sociale e culturale: tutti potrebbero farlo senza avere l’ambizione di diventare Riccardo Muti, Maurizio Pollini, Uto Ughi o chissà cosa. La musica dovrebbe essere accessibile a tutti, ma senza avere le velleità di diventare dei concertisti. Dirò un cifra agghiacciante: 0,037% è la percentuale di diplomati di conservatorio che ogni anno trova lavoro con la musica, quasi sempre entrando a far parte di un’orchestra».
Federica: La scelta dei luoghi per i concerti di Emilia Romagna Festival è legata alle scelte curatoriali o al potenziale pubblico?
M.M.: «Nessuno dei due. La nostra programmazione estiva è legata molto ai luoghi dove andiamo, perché sono tutti diversi tra loro: possono essere una cantina vinicola, un’arena costruita con balle di paglia, un’ansa di un fiume, una chiesa, un chiostro, un teatro, un luogo all’aperto o al chiuso. Visto che sono posti così differenti, è importante scegliere un programma che sia coerente con il contenitore. È chiaro che qui il ruolo del curatore interviene con questioni di gusto, di scelte di tipologia degli artisti. Per esempio abbiamo sempre dedicato un ampio spazio ai giovani, dando la possibilità a concertisti esordienti di farsi ascoltare a fianco di grandissimi artisti. Questo è uno dei nostri punti di forza, perché per un giovane suonare insieme ad artisti di livello simile non cambia la carriera, ma se invece sei inserito in un contesto prestigioso, avrai maggiori possibilità. Inoltre, è un grande errore fare un festival per andare incontro al gusto del pubblico, perché oggi gli dai un dito, il prossimo anno ti chiede la mano, poi ti chiede l’avambraccio e nel frattempo ti ha pure sfilato l’orologio».
Francesca: Lei è stato il primo vicepresidente italiano dell’Associazione dei festival europei (EFA) di cui ERF fa parte dal 1999, probabilmente un anno di svolta per il festival e la sua gestione. In che modo la vicepresidenza ha influito sulla storia di Emilia Romagna Festival?
M.M.: «Già frequentare un circolo abbastanza ristretto di colleghi significa scambiarsi esperienze. Quella dell’ERF è stata una storia ancora più interessante, perché il festival raccoglie una serie di città e per questo siamo stati i primi a pensare di mettere in relazione più stagioni concertistiche. Successivamente abbiamo creato una rete di festival italiani e poi una rete di festival internazionali. Abbiamo collaborato con la Cina, dove si è esibito per la prima volta grazie a noi Roberto Bolle; siamo stati all’Expo, abbiamo organizzato una stagione alla Carnegie Hall di New York e il concerto dell’11 settembre alle Nazioni Unite nel 2006. Abbiamo sviluppato questo concetto di relazioni e di partenariati ripreso dal mondo economico e siamo stati i primi in Italia a sviluppare questa rete di relazioni che dopo 22 anni ancora funzionano: insomma, posso dire che siamo stati lungimiranti».
Giuseppe: Questo festival sembra non avere un tema principale, ma tante correnti. In che modo lei pensa e costruisce un festival? Ci sono delle linee curatoriali o degli elementi che secondo lei sono fondamentali oggi? Qual è, secondo lei, la dimensione di ERF nel panorama dei festival di musica colta italiani?
M.M.: «Nel contesto dei festival italiani, considerando la posizione centrale anche nelle relazioni create con le altre realtà musicali, ha veramente un ruolo importantissimo. Non ci sentiamo arroccati in una torre d’avorio, abbiamo sempre evitato il tappeto rosso: il nostro è un festival accessibile, multiculturale e democratico e soprattutto non ci siamo mai interessati alla politica. Avere un tema principale può andar bene per un piccolo festival, che spesso ha un’estensione più limitata. Ma nel caso di un festival così ampio, con luoghi distanti fra loro e talvolta spettatori diversificati, è difficile avere un tema unico. Quest’anno ci siamo interessati al tema unificatore degli operatori culturali, ma dal punto di vista della programmazione abbiamo sempre promosso una serie di idee che rappresentano la contemporaneità, i giovani, i vincitori dei concorsi. Gli elementi che determinano maggiormente la programmazione sono il contenitore dell’evento, il concetto di turismo culturale e la mobilità del pubblico».