Un mestiere non indispensabile: intervista a Cosimo Carovani

Nell’ambito del laboratorio di giornalismo e critica musicale curato da Altre Velocità per Emilia Romagna Festival, i ragazzi e le ragazze che compongono la redazione hanno incontrato il violoncellista, compositore e scrittore Cosimo Carovani per sottoporgli curiosità e domande sul ruolo dei giovani artisti in questa precaria contemporaneità.

Alexandra: Come vengono visti i giovani compositori nell’ambiente della musica colta contemporanea?

Cosimo Carovani: «Il problema della musica contemporanea è che è iper-frammentaria nel suo essere una musica di nicchia, quindi non è semplice dare una risposta oggettiva. Io posso rispondere dal mio punto di vista o dal punto di vista del Quartetto Indaco, andando ad attingere dalle varie opinioni che ho raccolto nel corso della mia carriera. Sulla base di ciò che sto vedendo io, la musica contemporanea sta cercando nuove strade. Vediamo come, in alcuni casi, le nuove strade siano sempre più inclini alla contaminazione di vari generi come il jazz, la musica folkloristica o la musica tradizionale. In altre circostanze ancora, ritornano sui dettami di un passato come quello mahleriano o wagneriano. Per fare un esempio positivo, Giovanni Sollima, violoncellista molto famoso e compositore, noto per le sue esplorazioni al violoncello da un punto di vista sperimentale con tecniche novecentesche, è uso mescolare temi folkloristici, jazz e spunti improvvisativi di varia natura. Da sempre questo connubio di musica classica, d’arte e contemporanea scatena nel pubblico grande interesse e curiosità. Lui è in grado di comunicare, esprimersi e parlare di qualcosa che loro già conoscono, ma in maniera differente, del tutto innovativa. Sollima è un compositore, ma prima di tutto è un violoncellista e un concertista che conosce a fondo il proprio strumento e la propria identità. Negli anni è riuscito a consolidare un linguaggio col pubblico e ad instaurare una connessione: questo è un caso dove sorpresa e curiosità hanno trovato una linea comune. Un altro esempio italiano è Silvia Colasanti, una compositrice di arte contemporanea che ha trovato una sua dimensione ed estetica riunendo la musica contemporanea a un linguaggio più immediato per il pubblico. Tuttavia nel nostro mestiere succede di scontrarsi con accademici della vecchia scuola che scrivono, pensano e ragionano come cinquanta o sessanta anni fa. È un linguaggio che non trasmette più niente o trasmette delle sensazioni che sono state ripetute così tante volte che se ne può fare a meno poiché non sono realmente essenziali.»

Adriana: In rapporto al pubblico, mirate a lanciargli solo delle piccole curiosità oppure vi piacerebbe andare oltre la superficie della divulgazione? Nello specifico avete mai pensato di proporre una vera e propria guida all’ascolto? Se sì, cosa consiglieresti ad una persona che vuole avvicinarsi al panorama della musica classica?

C.C: «Come artista solista, ma anche facendo parte del Quartetto Indaco, credo sia necessaria quella che viene chiamata moderazione. Uno dei problemi degli esecutori e compositori risiede nel essere visti come esseri lontani ed astratti, rinchiusi in delle torri d’avorio lontani dal mondo. Il pubblico che si trova al di là del palcoscenico, in una distanza incolmabile, ha sempre considerato gli artisti come persone che vivono solo d’arte e non hanno contatti con la realtà. Spesso il pubblico si trova davanti a persone lontane, immagini sbiadite di artisti, i quali continuano a portare avanti gesti e modificare l’interpretazione di opere, che non sono parte di loro stessi. Ho avuto la possibilità di studiare per sei anni ad Hannover, lì prima di un concerto all’interno della Musikhochschule, al pubblico era permesso entrare con un’ora di anticipo, e chi era interessato poteva assistere, in una delle aule, all’introduzione dell’opera che sarebbe stata suonata quella sera. L’introduzione, che non era per forza di carattere specialistico in cui si andava nel dettaglio della partitura, veniva fatta da un’artista, un professore o uno strumentista. Questa tipo di moderazione poteva prendere in considerazione gli aspetti della vita del compositore, gli aneddoti riguardo il brano stesso, i suoi punti predominanti ed infine l’esperienza stessa dell’esecutore. Questo portava l’esecutore ad avvicinarsi al brano in maniera comprensibile ma soprattutto si dava la possibilità all’ascoltatore di entrare in simbiosi con l’artista. Noi come quartetto spesso andiamo degli incontri con le scuole, dove gli studenti vengono preparati su un determinato periodo e ci rivolgono domande, alle quali rispondiamo in qualità di loro pari. Questo tipo di progetto ha avuto una risonanza significativa per la moderazione della musica classica. Un’altro progetto interessante, ma più legato al territorio e alla sua storia, si chiama Floema, e viene fatto in Toscana dall’orchestra Leonore; consiste in gruppi che vengono formati in seno all’orchestra Leonore e che eseguono capolavori della musica da camera accanto a nuove composizioni di autori del territorio.»

Samuele: Per te personalmente e per il Quartetto Indaco, come è stato quest’ultimo anno dal punto di vista lavorativo? Qual è la condizione e la considerazione che si ha dei musicisti come professionisti in Italia?

C.C.: «Ci sono state molte persone che si sono lamentate in quanto gli aiuti hanno tardato ad arrivare, personalmente penso che la società abbia fatto passi da gigante rispetto a sessant’anni fa, quando questi aiuti non sarebbero mai esistiti, pertanto dobbiamo esserne assolutamente grati. Molti dei nostri concerti come Quartetto Indaco sono saltati a causa dei vari DPCM. La quarantena è stata difficile, sia per i singoli artisti che per noi come quartetto, è stato demotivante mantenere un obbiettivo, non sapendo quando avremmo ricominciato a suonare per un pubblico. La musica come forma d’arte esiste solamente nel momento in cui viene ascoltata. Suonare uno strumento a casa propria piace a molti, ma è nel momento in cui porti sul palco ciò che suoni che diventa un’attività professionale. In particolare, il Quartetto Indaco nelle sue prime esperienze ha provato a continuare gli studi ma, a un certo punto, abbiamo deciso di fissare due registrazioni e nel periodo della quarantena abbiamo registrato due CD. Questo perché ci siamo resi conto che le prove continuavano a susseguirsi con lentezza, standocene lì a chiacchierare e a prendere il caffè. Invece in questo modo avevamo una scadenza nella quale concentrare tutti i nostri sforzi, e ora che tutto è riaperto continuiamo ad andare avanti, a studiare e a lavorare secondo le necessità e i programmi. Ho vissuto meglio la prima quarantena rispetto alla seconda: durante la prima eravamo a inizio marzo, quando non tutte le attività erano consentite, rallentare il ritmo è stato dunque più “semplice”. La seconda quarantena invece ci è piombata addosso, e tutto questo è diventato più difficile. Ho sentito il vuoto e la sensazione di inutilità, oltre che un grande spaesamento. È stato da qui che il Quartetto Indaco ha cominciato a cercare al suo interno le ragioni della sua esistenza, per darsi un significato al di fuori del palco. Una questione che è stata ignorata, ma che penso sia molto interessante da considerare, è quella dei danni psicologici. Tutti noi ne abbiamo subiti durante la quarantena, ovviamente con le dovute differenze, ma ciò che è difficile è rendersi conto che questi danni continueranno anche dopo il periodo di chiusura. Vivere la quarantena è come vivere un grande periodo di stress, seguito da un attacco di panico, attacco che sopraggiunge proprio in cui tutto sembra andare bene. Il Quartetto, come i musicisti in generale, non ha fatto niente per sei mesi, e poi all’improvviso sono venuti fuori tutti gli enti che chiedono l’esecuzione dei concerti che sono saltati. La scorsa settimana, ad esempio, sono stato in Svizzera, a Berlino, a Udine, a Milano e in Sardegna nel giro di sette giorni, per suonare cinque concerti con cinque repertori diversi. Se questo fosse accaduto in un momento di tranquillità fisica e psicologica, sarebbe stato di certo stressante, ma semplice dopotutto. Invece adesso è difficile tornare a viaggiare a suonare in questo modo, non solo per gli spostamenti, ma per quello che rimane il vero studio del musicista, che non è a casa, ma sul palco. Temo un’eventuale terza quarantena, se penso che ci sono tanti amici e conoscenti nel mondo della musica che si sono suicidati durante le chiusure. Ed è accaduto perché è venuto a mancare loro lo scopo, perché il nostro mondo che è fatto di musica e di arte, è collassato. Ci siamo resi conto che il nostro mestiere non era indispensabile, dal momento che si dava più importanza alla riapertura delle discoteche o dei campi sportivi, che non a quella dei teatri. Eppure i teatri possono essere considerati i luoghi più sicuri al mondo nel contesto dell’emergenza sanitaria, perché le persone non parlano, non si abbracciano, non si muovono: sono lì ad ascoltare indossando la mascherina oppure ben distanziati. Tornando all’esempio precedente, l’attacco di panico è quel momento in cui il corpo è rimasto slegato dalla tua mente, perché la mente va a una velocità insostenibile per il corpo, a cui non resta che mandare un messaggio di pericolo. Con un attacco di panico non respiri bene, oppure hai mal di stomaco: ognuno lo manifesta a suo modo. E questa sensazione ci ha assediato quando abbiamo ripensato a quanto la nostra classe sia sottopagata, sfruttata, non considerata e mal rappresentata. Pensiamo a chi è freelancer, che molto spesso non ha alcun tipo di aiuto o di sicurezza. Ora si sono creati degli apparati, come Note Legali o Classica Futura, che forniscono aiuto su richiesta, informano i musicisti sui loro diritti e doveri e, soprattutto, aiutano a gestire questa situazione di emergenza anche dal punto di vista burocratico, il che è molto complicato. Quindi, da un lato, io sono contento che sia accaduto tutto ciò, perché ci fa capire quanto siamo in basso, mentre prima ci accontentavamo, e ci accontentavamo anche dei cento posti occupati in un teatro da cinquecento.»


Sara: Come avete trovato la chimica e il senso di unità che avete quando suonate insieme? Qual è l’identità di questo quartetto, e quale il ruolo del quartetto in generale come formazione cameristica nella musica colta ad oggi?

C.C.: «Abbiamo trovato la chimica studiando e lavorando. È opportuno chiarire, innanzitutto, che cosa sia il quartetto d’archi. Il quartetto d’archi è una delle poche formazioni musicali che non può essere improvvisata, perché è composta da quattro strumenti della stessa famiglia e ha la necessità di lavorare su tre grandi parametri: suono, intonazione e interpretazione. Nello specifico, bisogna riuscire a trovare un suono che sia davvero comune: pensiamo che il quartetto spesso viene chiamato “lo strumento a sedici corde”, perché ogni parte compartecipa singolarmente a un risultato che proviene da tutte e quattro. L’intonazione, invece, è armonica, non temperata come quella del pianoforte, ovvero è influita dal suono ed è un’intonazione di gruppo. Possiamo intendere l’intonazione attraverso diverse filosofie, per le quali ora è alta, ora bassa, ora al centro. Infine c’è l’interpretazione, che è significativa perché il quartetto è la formazione che ha il repertorio più vasto di tutte. Ogni compositore ha scritto per quartetto, che sia un solo quartetto, che siano quindici, che siano trenta, che siano quelli di Haydn, abbiamo un repertorio sconfinato che nemmeno due vite darebbero la possibilità di studiarlo tutto. Questo non si può improvvisare, infatti ai grandi festival dove importanti solisti s’incontrano per suonare, se gli chiedono un pezzo da imparare in due giorni non è mai un quartetto. Il Quartetto Indaco è una formazione che esiste da 12 anni e ha cambiato moltissimi membri, io sono il penultimo arrivato, infatti suono nel quartetto da 7 anni. Durante la pandemia abbiamo cambiato un membro, il secondo violino, che adesso è con noi da un anno e mezzo. Per mantenere la nostra alchimia, molto pragmaticamente, studiamo ogni giorno insieme: quattro-cinque ore, e così creiamo un linguaggio comune che è sia parlato, sia emozionale, sia fatto di ricordi e di aneddoti che ci permettano immediatamente di connettere azioni a suoni a immagini che tutti e quattro possiamo immediatamente comprendere. Il tempo che si passa insieme è la variabile che accomuna la crescita complessiva del gruppo: più si sta insieme, più si crea connessione, così come anche la capacità di reazione a proposte non verbali. Perché il quartetto è una formazione musicale senza direttore e quindi il nostro modo di comunicarci è dato dalla conoscenza dell’altro e dalla comprensione della fisicità e del respiro musicale che l’altro ha. L’identità è un’identità molto flessibile. Siamo un quartetto che ricerca uno stile apposito per ogni compositore, cerchiamo proprio la duttilità, questa capacità di passare da una tecnica all’altra senza conseguenza di causa e di declinare tutti i nostri insegnamenti e le nostre esperienze e metterle la musica in modo che ci sia un prodotto, un’esecuzione, assolutamente personale e soprattutto emozionale. Ci interessiamo molto a emozionare soprattutto noi stessi, e attraverso questo anche gli altri. Rispondendo invece su quale sia il ruolo del quartetto in Italia nell’ambito della musica colta: abbiamo la possibilità di essere la testa d’ariete della musica classica, perché il formato è piccolo: non c’è il pianoforte (che spesso deve essere affittato), ci portiamo sempre le nostre cose, possiamo suonare all’aperto, sul palco, sulle sedie di casa. Infatti, il quartetto è la base dell’Hausmusik: se uno andava a Lipsia a casa Mendelssohn ascoltava sì la gente che suonava il pianoforte, ma venivano anche invitati quartetti a suonare per sentire gli ultimi pezzi di Beethoven, Schumann e Mozart. Io credo che ci sia una Associazione che se ne sta rendendo conto, si chiama Le Dimore del Quartetto e ha base a Milano, che utilizza gli spazi dati come pagamento per il concerto. Per esempio, se un quartetto di Milano deve andare a suonare in Sicilia, c’è una rete di persone abbienti che danno ospitalità al quartetto, che dorme lì e fa un concerto gratuito per loro in cambio dell’ospitalità, che molto spesso serve anche come prova generale per il concerto che dovranno fare in seguito per la Società dei Concerti.»

Sara: Sono tanti gli archi di altissimo livello che scelgono di suonare in orchestra, il fatto di essere un quartetto e non un’altra cosa è ciò che vi sta tenendo in vita?

C.C.: «Sono proprio due cose diverse. Nell’orchestra hai un salario, le ferie pagate, una prospettiva molto chiara, sei all’interno di un grande gruppo, ovviamente ricerchi anche delle sonorità, però fai parte di una grande congregazione che ha la precedenza dal punto di vista espressivo. Il quartetto è una vita monacale. È una vita di abnegazione. È un grande matrimonio a quattro nel senso che tutti noi viviamo sempre insieme. Infatti nel Quartetto Italiano a fine carriera dormivano in quattro alberghi diversi perché non si sopportavano più. Se però mi chiedi se è il quartetto che ci tiene in vita allora ti dico che il quartetto è la nostra passione e il nostro mestiere, ma vivere solamente di questo è impossibile. Poche persone ce la fanno al mondo. Forse Alban Berg ce la faceva. Noi, come quartetto, abbiamo percorso molte strade diverse. Eleonora Matsuno, il primo violino, è spalla anche di orchestre, lavora con altri gruppi tipo le Cameriste Ambrosiane e si occupa di diversi progetti dal punto di vista cameristico. Jamiang Santi, il nostro violista, suona in orchestre barocche. Ida Di Vita, la nostra seconda violino, ha una grande passione per l’insegnamento. Io scrivo, faccio il solista, compongo. Ognuno ha un suo sbocco, però poi tutte queste esperienze alla fine convergono nel quartetto, che viene sempre prima di ogni altra cosa. Infatti tra noi c’è il tacito accordo che possiamo fare audizioni ma non possiamo fare concorsi per le orchestre. Nel senso che l’audizione ti permette qualche chiamata saltuaria, ma il concorso è definitivo, perché nel momento in cui una persona ha un posto fisso metti in difficoltà tutti gli altri. E così quello che accade è che anche gli altri possono cercare un posto fisso, non ci sarà più tempo per provare e alla il quartetto si scioglierà. È un patto, diciamo così, tra gentiluomini.»

Andrea: Da giovane compositore vedi in Festival come l’ERF sufficiente attenzione alle proposte originali, in particolare di autori magari non ancora affermati?

C.C.: «Posso dirti che parlando con Massimo Mercelli, il direttore artistico di ERF, lui ha avuto sempre molto interesse per la musica contemporanea. Tra le altre cose, lui e Penderecki sono stati amici, se non mi sbaglio gli dedicò anche un brano, per cui lo vedo come un direttore da sempre vicino agli autori contemporanei. Secondo me un festival non può essere un festival senza una parte di musica contemporanea. Che sia un’artista in residenza, che siano progetti magari interessanti con anche installazioni, insomma, qualsiasi cosa proponga oggi la musica contemporanea. Ho notato che ai festival fa molto piacere avere prime esecuzioni. La prima esecuzione in un programma di sala è la cosa che ricercano tutti perché è un segno distintivo. Eppure uno dei grandi problemi del compositore contemporaneo in questo momento non è essere eseguito, ma è essere rieseguito. Capita troppo spesso che una volta che abbiamo sentito una prima di un giovane compositore sarà anche l’ultima di quel particolare lavoro. Infatti i compositori che vanno avanti molto spesso sono quei compositori che sono anche interpreti delle loro musiche, liberi così di rieseguirle e di farle sedimentare nel pubblico. Io non mi definisco compositore. Nel senso: io sono violoncellista e ancora meglio sono quartettista. Il compositore libero da ogni legame è quello che lo fa perché ha bisogno di dire qualcosa, non perché ci deve vivere. Se a me qualcuno qualcuno mi chiama chiedendomi di scrivergli un pezzo, non gli do la commissione, non me ne interessa niente. Io scrivo perché mi fa piacere. C’è una persona che mi ha profondamente colpito per come suona? Allora magari gli scrivo un pezzo, perché è una cosa che mi piace. Se poi è una musica che le persone vogliono riascoltare, ben venga. Ormai in Italia la musica contemporanea, intesa però come quella di cinquant’anni fa, ha un suo spazio, sta uscendo dalla nicchia e s’intrufola anche nelle varie società dei concerti. Ma non è qualcosa che è entrata nel nostro DNA. E sinceramente se deve essere la musica di cinquanta o sessanta anni fa, è anche un bene che non si sia imposta, preferisco che in questo momento la musica contemporanea sia considerata “chic”, in qualche modo, e che possa rientrare dalla finestra quando ci saranno compositori che veramente abbiano preso la corona che è stata lasciata all’inizio del ‘900. Ovviamente mi tireranno le pietre per quello che dico, ma è ciò che penso.»

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