Abbiamo intervistato Filippo Andreatta, uno degli organizzatori e curatori assieme a Barbara Boninsegna di Future Feminist Festival, che si sta svolgendo in questi giorni presso la centrale idroelettrica di Fies. Andreatta è anche parte dello studio di ricerca OHT (Office For Human Theatre), presente al festival con Rompere il ghiaccio.
Con lui abbiamo parlato delle offerte performative e spettacolari che si susseguiranno questi giorni, di femminismo, parità di genere e inclusione delle minoranze nel sistema teatrale italiano e di come i tempi che stiamo vivendo abbiano imposto un ripensamento dei ritmi e delle modalità di lavoro e, forse, dell’idea stessa di teatro.
In base a quale criterio sono stati scelti gli artisti che partecipano al Festival?
La risposta è piuttosto complessa, anche perché ci troviamo in un momento di transizione; fino all’anno scorso, Centrale Fies era strutturata come un centro di residenza aperto tutto l’anno con tantissime sezioni diverse e con programma principale di apertura rappresentato dal festival di respiro internazionale, che durava dieci o quindici giorni a seconda dell’annata.
Tendenzialmente il festival ha perseguito una linea artistica che implica una lunga continuità di collaborazione con artisti di giovani generazioni: si tratta di collaborazioni che durano anche dieci anni. Ora le modalità si stanno modificando.
C’è, cioè, un tipo di “attenzione temporale” differente: se prima il festival era corposo e rappresentava il momento di massima apertura e relazione col pubblico, adesso questo ruolo è più dato da una programmazione costante durante l’anno mentre il festival si è spezzettato in due, tre differenti tranche e ha assunto una forma più “esplosa”.
Inoltre, ci sarà anche una scuola di femminismo lungo tutto il festival…
La Feminist Future School è un progetto che deriva direttamente dalla rete europea Apap, quindi non è una scelta unicamente di Centrale Fies. L’idea è quella di applicare un approccio intersezionale al “femminismo” dentro le strutture teatrali e all’interno del network stesso, per scardinare quei comportamenti e quelle dinamiche di potere che contrastano appunto con i principi del femminismo. Ora, abbiamo provato a intervenire su questo. Oltre ad aver ridotto drasticamente il numero di artiste ed artisti, infatti, abbimo anche cambiato le modalità di selezione: non sono solo direttori e curatori a scegliere gli artisti, ma sono poi loro stessi a invitare dentro il network persone che stimano o con cui hanno una collaborazione.
Pensi dunque ci sia poca uguaglianza di genere ed etnica nel teatro italiano?
Assolutamente si. Si capisce molto dai numeri e dal fatto che molti evitano di parlare di questi argomenti, che in fondo è solo un modo di schivare la questione affinché nulla cambi. Il network di Centrale Fies prende posizione nel campo del femminismo, cercando però di non essere assertivi.
Anzi, con la scuola proviamo proprio a porre delle domande a noi stessi: «Siamo davvero femministi? Come lo possiamo diventare?». Inoltre, il festival sta attuando un percorso strutturato appositamente per gli artisti di seconda generazione italiana a partire da femminismo, razzismo e differenza di genere.
Cosa volete trasmettere agli spettatori del festival?
Credo che da parte degli artisti non ci sia l’intenzione diretta di lasciare un messaggio. Per me, voler ridurre una pratica artistica a un messaggio è molto rischioso e capzioso per la pratica artistica stessa: la loro essenza non corrisponde alla mera comunicazione di qualcosa che abbia un contenuto dal carattere politico o sociale.
Penso che il valore del fare arte, che è sempre politico, non significa usare necessariamente le parole della politica o del quotidiano. Talvolta è bello tentare di valorizzare proprio quelle sperimentazione che si allontanino dal linguaggio politico o quotidiano. Ma ciò chiaramente non vuol dire che quelle opere non abbiano poi un valore sociale o politico.
Gli ultimi anni sono stati difficili per via del Covid-19. Che cambiamenti ci sono stati?
Al di là della tragedia in sè, che rimane qualcosa di molto difficile da affrontare, le istituzioni teatrali – al netto delle ovvie difficoltà logistiche e organizzative – sono le figure più tutelate del sistema di cui facciamo parte, soprattutto se confrontate con la condizione di lavoratori e lavoratrici dello spettacolo in generale. C’è chiaramente stata una grossa parte di eccesso di lavoro e di fatica maggiore dell’ordinario, ma l’operatività delle istituzioni in sè non credo sia stata granché scalfita dal Covid-19.
Attraverso lo “stato di eccezione” che si è venuto a creare con la pandemia, tuttavia, certi pensieri e riflessioni su come il sistema potesse cambiare hanno trovato una distensione temporale in cui si rendeva possibile una sperimentazione concreta. Quindi, anche la volontà da parte di Centrale Fies di passare dall’essere un’istituzione con un festival al centro e poi attività più marginali a lato a un’istituzione che pone invece al centro le attività annuali affiancandole a un festival “esploso” era molto più facile da mettere in atto nel contesto attuale che con i ritimi canonici pre-pandemici. Si tratta di un cambiamento epocale, per un’istituzione così piccola e fragile come la nostra.
Il festival si svolge all’interno di una centrale idroelettrica. Che relazione c’è tra l’ambiente e i temi trattati?
In certi periodi la relazione è più stretta e preponderante rispetto ad altri. Penso che per Dino Sommadossi e Barbara Boninsenga, che hanno creato nel 1981 Drosera da cui si è poi evoluto questo festival, l’idea di dedicare questa centrale semi-abbandonata a luogo di creazione performativa rappresentasse un vero e proprio “sogno”. I maggiori centri di produzione nel nostro paese si trovano soprattutto in contesti urbani,mentre qua il contesto è profondamente diverso. Questo ci conduce a riflettere attentamente sulla relazione con lo spazio: dobbiamo lavorare su un’identità che non è cittadina, ma anzi un luogo non-urbano immerso nella natura.
(disegno di copertina di Agnese Manghi)